Estratti dalle sue lettere
da Ritratto del poeta attraverso le lettere, Einaudi, Torino, 1970
Mi hai pregato di parlarti della mia teoria della poesia. Davvero non ne ho una. Mi piacciono le cose difficili a scriversi e difficili a capirsi; mi piace “controbilanciare i contrari” con immagini segrete; mi piace contraddire le mie immagini, dicendo due cose alla volta con una sola parola, quattro con due e una con sei. Ma quel che mi piace non è una teoria, anche se do stabilità con il dogma alle mie preferenze personali. La poesia, pesante nella tara anche se agile, dovrebbe essere orgiastica e organica come una copulazione, dividendo e unificando, personale ma non privata, propagando l’individuo nella massa e la massa nell’individuo. Secondo me dovrebbe agire dalle parole, dalla sostanza delle parole e dal ritmo delle parole sostanziali messe insieme, e non verso le parole. La poesia è un mezzo, non una stimmata sulla carta. Gli uomini dovrebbero essere forniti di due arnesi e la gamba di mezzo di un poeta è la sua matita. Se la sua fallica matita si trasforma in un trapano elettrico, spezzando il catrame e il cemento del linguaggio assottigliato dalle gomme di triciclo dei poeti della natura e delle pesanti sei ruote dei Sir accademici, tanto meglio; ed è il lavoro che conta, signora, il genio essendo così spesso una capacità di dolorose sofferenze.
La gente non vuole leggere poesie, vuole leggere poeti.

Quasi temo tutti gli artifici e le oscurità che una volta mi erano necessari, e non riesco, fossero in gioco la vita o la morte, a raggiungere alcuna vera liberazione, alcuna espansione o scioglimento, o qualunque cosa, dentro la pasta centrifugata delle parole; mi sembra, più che mai, di stipare strettamente tutto quello che ho e che so dentro la valigetta di uno psichiatra, e poi di chiuderla a chiave: tutto ciò che puoi vedere è la valigetta, tutto ciò che sai è che è piena fino all’orlo, tutto ciò che devi credere e che le cose invisibili e intangibili che vi sono ammucchiate - solo che potessero essere viste e toccate - valgono molto.
Non temo l’improvvisa cessazione o inaridimento, l’approssimarsi alla fine, una (sentimentalmente parlando) estinzione dei fuochi; ciò che temo è l’unghia incarnata, l’impulso che cresce come un’unghia nell’artificio.
Il verso iniziale non deve essere troppo palesemente un verso di apertura: tum tum tum, tutte le ruote e i cilindri sono messi in moto: sta per cominciare una poesia. Vedo le tute degli operai, odo suonare la sirena della poesia-fabbrica.
Può capitare che in una poesia tutte le parole siano belle, ma abbiano l’aria di essere state scelte, non strappate fuori. Magari è apprezzabile la sensibilità con cui sono state collocate, messe insieme; ma solo un forte e inevitabile strappo fa di una poesia un evento, un accadimento, un’azione forse, non una natura morta, o un’esperienza annotata, ordinata, regolata.
La poesia non deve sapere di letterario, deve sapere di vivo. Una buona poesia non deve sembrare che venga fuori dalla nostalgia della letteratura; occorre una distruzione creativa, creazione distruttiva.
Non c’è bisogno del sole perché una poesia sia calda.
Una poesia non deve essere troppo palesemente fatta di parole.
Una buona poesia deve fare più del dovuto, perché abbia l’aspetto di “essere stata creata”. Quando le parole sono state scelte, giacciono paghe della nostra scelta. Le parole devono venire con pensiero, con fresca immaginazione e, non pre-avvolte in una frase non necessaria.
Un verso come «posto nella lunga grigia ombra del nostro piangente pensiero» non è buono perché ha dentro troppe parole deboli. Deboli prese da sole e più deboli unite insieme. Esse non si controbilanciano l’una con l’altra, ma si allungano in uno sparuto non nulla: una lunga, grigia, lagrimosa salsiccia. Tutto il verso sembra una specie di stanca ripresa di fiato. Ho sempre avuto avversione per il verso debole. Mi rendo conto che i lettori di poesia complicata hanno bisogno di tanto in tanto di una pausa per respirare, ma non credo che la poesia dovrebbe dargliela. Quando ne vogliono una, devono prendersela e poi proseguire.
I versi non dovrebbero essere troppo fluidi, cioè non deve sembrare che siano venuti troppo facilmente, non devono essere afferrati troppo rapidamente e saltare via.
Le rime non devono venire troppo naturalmente, bisogna insospettirsi di questo; il piacere sta nel cercarle per parentele, non nel trovarle catalogate ai loro posti.
A volte siamo, in azione, uomini e donne di penna. Ma ciò che dovremmo essere è: uomini e donne di penna in azione.
Non essere troppo severo con le poesie fino a che non le hai dattiloscritte. Un testo copiato a macchina acquista una specie di certezza: o almeno se le cose sembrano brutte anche dopo, lo sembrano con convinzione; nel manoscritto invece appaiono come se potessero essere modificate in qualunque momento.
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